Da ubriaco
Passo dei Mandrioli. ottobre 1954
Tartufi Alba e Freisa Chieri,
lambrusco Castelvetro,
e lambrusco Sorbara,
vini del loro nome
Carema Gattinara
Barolo Barbaresco
Caluso Bardolino
Broni Valpolicella,
anguille Comacchio,
trote il Moncenisio,
Incoronata Zena
funghi e bistecche la Toscana tutta,
noci Sorrento,
Amelia palombacci,
producono.
Gioia produce l’Italia e tutta la terra per gli uomini,
gioia di mangiare di vivere,
gioia di continuare.
Eppure un giorno si deve morire. Perché?

(Mario Soldati)

Grappolo_Max

Grappolo di Freisa. Fotografia di Massimiliano Sticca

Il Freisa, vitigno tipicamente piemontese, ha una storia di almeno 500 anni, così come da documentazioni pervenute sino ai giorni nostri. La sua presenza nei territori degli odierni Monferrato e Collina Torinese è sicuramente precedente, ma con altri nomi a indicare l’uva locale. La sopravvivenza della viticoltura e dell’arte enologica alle invasioni barbariche che seguono la caduta dell’Impero Romano si deve soprattutto ai monaci che, al riparo dei loro monasteri, perpetuano e tramandano la coltivazione della vite e la produzione di vino richiesto per la celebrazione dell’Eucaristia. Per la Freisa e le altre uve di questo territorio compreso tra il Po e il Monferrato tale ruolo spetta ai monaci Agostiniani dell’Abbazia di Vezzolano che ne diffondono poi la coltivazione nel circondario.
Ultima appendice delle dolci colline del Monferrato, quella che Giovanni Battista Croce chiamava la “montagna torinese”, da tempi immemori è uno scrigno di vigneti, vitigni e rilevanti produzioni vinicole. L’eclettico personaggio di origine milanese, giunto alla Corte dei Savoia invitato dal duca Carlo Emanuele I, tanto contribuì alla diffusione di vitigni e vini della zona. Se l’autore nei suoi scritti non fa riferimento specifico all’uva Freisa, forse denominata con un sinonimo locale usato allora, cita altre varietà come il “Cario” e le “Malvagie” ( Cari e Malvasia), che da agronomo ed enologo – oltre che orafo e architetto – avrebbe coltivato, vinificato e studiato nei suoi poderi di Val San Martino e Val Salice, oltre che di Candia.

Tra ‘600 e ‘700 proliferano le proprietà borghesi e nobiliari che con terreni vitati e adeguate cantine per la vinificazione coprono il fabbisogno della famiglia. Questi vigneti, coltivati molto probabilmente a Freisa, sono nominati negli atti pubblici “vinee ultra padum”, cioè le vigne oltre il Po. E “vigne” diventa anche il nome delle proprietà, col tempo poi denominate “ville”. La più nota è la Vigna della Regina di Madama Reale Cristina di Francia, la cui attività produttiva storica è stata riattivata dall’Azienda Balbiano insieme alla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte nel 2003 . La superficie del vigneto storico è di 1,4783 ettari, quella del reimpianto in uso di 0,7370 ettari. Le barbatelle messe a dimora sono state 2.700 (di cui 2.546 di tre tipi di Freisa e le restanti suddivise fra Barbera, Bonarda, Cari, Grisa roussa, Neretto duro e Balaran).

Da ricordare ancora che la cosiddetta “collina torinese”, oasi verde a ridosso del capoluogo piemontese, oggi raggiungibile in pochi minuti di automobile era, in tempi relativamente recenti, meta privilegiata per le gite fuori porta domenicali, la merenda sinoira e le scampagnate, di Pasquetta in primis, che vedevano sfiziosi spuntini accompagnarsi dai locali nettari, beverini e fruttati.